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PAULO FREIRE

Paulo Freire è nato a Recife (Brasile) nel 1921.

Nel Brasile di quegli anni la famiglia Freire si trovò ad affrontare momenti difficili, a seguito della crisi economica del ‘29, che determinarono il loro trasferimento nella città di Jeboatão. In seguito il giovane Paulo si iscrisse all’Università, anche se la scelta della facoltà di Giurisprudenza si rivelerà non adeguata alle sue reali aspirazioni, anche alla luce del fatto che già in quel periodo Freire si dedicava con passione all’insegnamento.

Dopo il matrimonio con l’educatrice Elza Maria Costa Oliveira, Freire maturò la decisione di impegnarsi in modo sistematico nei problemi pedagogici: pur avendo terminato gli studi universitari, abbandonò ben presto il Diritto per intraprendere la professione di educatore.

Spinto da una forte spiritualità di stampo cristiano, e supportato da una spinta ideale che interpretava in chiave marxista i rapporti di potere interni alla società, Freire si propose di fare dell’educazione uno strumento di cambiamento rivoluzionario per la liberazione delle masse oppresse.

Nel 1961 fondò il Movimento di Cultura Popolare di Recife, ma nel ‘64, dopo il colpo di stato militare, venne imprigionato e quindi espulso inquanto oppositore politico del regime. Dal 1965 al 1970 collaborò a campagne di alfabetizzazione in Cile, Perù, Guinea Bissau, negli U.S.A. e in Svizzera dove fu assunto dal Consiglio mondiale delle Chiese come esperto di problemi educativi per il Terzo Mondo.

Nel 1980 fece ritorno in Brasile dove venne insignito della laurea honoris causa da 28 Università. Stava per ricevere la laurea ad honorem anche dall’Università di L’Avana, quando morì, in seguito ad un infarto, nel maggio del 1997.

La personalità e l’esperienza di Freire, sono una delle espressioni pedagogiche più importanti e significative che la storia abbia conosciuto, considerando anche l’impegno politico e per la giustizia sociale che egli ha profuso durante tutta la sua esistenza.

Il metodo di alfabetizzazione, coscientizzazione e liberazione elaborato dal pedagogista brasiliano è stato probabilmente lo strumento più importante che gli oppressi del sud del mondo hanno realmente avuto per impostare un processo di riscatto storico ed umano che liberasse al tempo stesso gli oppressi dal fardello della loro ingiustizia e gli oppressori dal mito del potere e del controllo sulle masse dei diseredati.

Il merito di Paulo Freire è stato quello di connettere coerentemente teoria e prassi pedagogica, passione educativa ed impegno civile e politico in un processo teso a restituire dignità ai soggetti partendo dalla loro presa di coscienza. Da qui prende le mosse la rivoluzione degli oppressi contro il concetto stesso di oppressione che li limita e li costringe a sottostare ad un meccanismo che si autoalimenta e riproduce. Essi, piano piano, si liberano dalla sottomissione esistenziale dell’oppressore, si allontanano dall’ombra lunga, sotto cui erano stati spinti dagli oppressori e cominciano ad umanizzare la realtà.

Gli oppressi non si sentono più come una «cosa» posseduta, ma sono i soggetti di una storia che tende a rinsaldare l’antica frattura oppressore-oppresso.

Freire può in questo caso parlare liberamente di pedagogia dell’oppresso come una pedagogia dell’uomo che punta alla realizzazione di una realtà dove la libertà dell’individuo è garantita dal riconoscimento della sua dignità di persona, «dalla consapevolezza che la dialiettica hegeliana padrone-schiavo deve essere superata dall’impostazione dialogica uomo-uomo (o educatore-educando) e dalla presa di coscienza che la formazione dell’individuo deve mirare alla crescita di una mentalità critica che liberi il campo all’etica della responsabilità dell’uomo verso l’altro uomo e dell’uomo verso l’ambiente vitale che lo circonda». (Freire 2002, 32).

Secondo Freire il povero non è mai solo un povero, il povero è stato fatto povero e chi è povero ha una sua grande cultura e dignità: egli può contribuire, pertanto, allo sviluppo della società conquistando una propria centralità nella storia del mondo.

Gli emarginati possono contribuire e promuovere l’incontro con le altre culture presenti nella società. Il grande progetto promosso da Freire era quello della costruzione di una società realmente democratica che consentisse ad ogni persona di utilizzare il dialogo costante e l’apertura verso gli altri come strumenti di crescita sociale.

In generale, quanto più un gruppo umano è critico, tanto più è democratico e permeabile. Tanto più è permeabile quanto più è legato alle condizioni del suo ambiente.

Quanto minori saranno le sue esperienze democratiche (che esigono conoscenza critica della realtà, partecipazione e inserimento), tanto più resterà estraneo alla realtà ed incline a forme semplicistiche di riflessione e di percezione, a forme ingenue e verbose di espressione. Quanto minore è la nostra criticità, tanto più ingenuamente trattiamo i problemi e discutiamo con superficialità gli argomenti. (Freire 2002, 50)

Educazione e politica sono nella filosofia di Freire dimensioni diverse, ma tuttavia connesse dal processo di coscientizzazione. Egli riconosce le inadeguatezze e le responsabilità dell’educazione proprio nell’aver contribuito a sostenere regimi politici oppressivi, sottopone quindi l’educazione ad una critica senza riserve, ma apre, nel contempo, strade alternative: è possibile educare non solo opprimendo ma anche liberando e liberandosi.

L’educazione viene vista come pratica della libertà grazie alla fiducia nell’uomo che è il soggetto dinamico e responsabile della propria crescita.

La crisi dell’educazione, percepita da Freire nella constatazione del nesso tra educazione ed oppressione, si risolve in un ulteriore accrescimento della funzione sociale dell’educazione stessa, ritenuta in grado di produrre società e politica nuove, di generare novità e di liberarsi dalla funzionalità alla riproduzione sociale.

Il rapporto tra politica e educazione, che spesso ha relegato quest’ultima ad un ruolo di subalternità, viene rivisitato dal Pedagogista brasiliano secondo le valenze di cambiamento insite nei processi educativi. Egli pone quindi attenzione alla questione specifica del potere. Il processo di educazione-liberazione, consistente sostanzialmente nella potenzialità personale e collettiva di esercitare potere, influisce sulle situazioni concrete di vita.

Il superamento della situazione oppressiva implica la liberazione attraverso il dialogo tra oppresso ed oppressore; il conflitto si esplica nel dialogo e l’oppresso liberandosi può educare gli altri.

Chi è preparato, più degli oppressi, a capire il significato terribile di una società che opprime? Chi può sentire, più di loro, gli effetti dell’oppressione? Chi, più di loro, può capire la necessità della liberazione? Liberazione cui non arriveranno per caso ma attraverso la prassi della loro ricerca; conoscendo e riconoscendo la necessità di lottare per ottenerla. (…)

La nostra preoccupazione è solo di presentare alcuni aspetti di ciò che ci sembra costruire quella che da tempo veniamo chiamando pedagogia dell’oppresso: quella che deve essere forgiata con lui e non per lui, siano uomini che popoli, nella lotta incessante per recuperare la loro umanità. Pedagogia che faccia dell’oppressione e delle sue cause una argomento di riflessione per gli oppressi; ne risulterà l’impegno indispensabile alla lotta per la loro liberazione, in cui questa pedagogia si farà e rifarà costantemente. (Freire 2002, 50)

Spesso su questo punto la proposta educativa di Freire è stata criticata per una supposta ingenuità politica, ed un umanitarismo utopico non praticabile. A me pare viceversa che il problema del potere venga affrontato in modo non mistificatorio, sicuramente nuovo per un universo di pensiero come quello pedagogico che a lungo ha esorcizzato, sorvolando e edulcorando, la questione sotto forme semplificatorie. Freire, viceversa, ci costringe a misurarci con interrogativi quali: in che misura il nostro educare accresce il potere degli altri o, al contrario, lo limita? Quando educhiamo come gestiamo il potere in nostro possesso?

Aprono la strada al disamore non i disamati, ma coloro che non amano, perchè amano solo se stessi. Coloro che aprono la strada al terrore non sono i deboli che lo subiscono, ma i violenti che con il loro potere creano la situazione concreta in cui generano i «dimissionari della vita», gli straccioni del mondo. (…)

Solo gli oppressi, liberandosi, possono liberare gli oppressori. Questi, in quanto classe che opprime, non liberano gli altri e non liberano se stessi. L’importante è che la lotta degli oppressi si faccia, e così si superi la contraddizione in cui si trovano. E che questo superamento sia la nascita dell’uomo nuovo: non più oppressore, non più oppresso, ma uomo che libera se stesso. (Freire 2002, 50)

Ciccio Tedesco

 
OPERATORE - FORMATORE
DI TEATRO DELL'OPPRESSO
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